Oggi sono 40 anni dal Terremoto dell’Irpinia, che fece circa 3.000 morti, 280.000 sfollati e distrusse un vasto territorio del Sud.
Fu una catastrofe umana, ambientale ma anche mise a nudo l’impreparazione
dell’Italia a gestire eventi drammatici e così rilevanti.
Il Presidente Sandro Pertini, giunto sul posto dopo poche ore,
denunciò in vibrante discorso al Paese tutte le insufficienze nei soccorsi e
nella organizzazione, che detta una scossa all’Italia, lanciando la frase che
divenne il simbolo della rinascita: Tutte le italiane e gli italiani: qui
non c’entra la politica, qui c’entra la solidarietà umana, tutte le italiane e
gli italiani devono mobilitarsi per andare in aiuto a questi fratelli colpiti
da questa nuova sciagura. Perché, credetemi, il modo migliore di ricordare i
morti è quello di pensare ai vivi”.
Anni fa scrivendo il mio libro di ricordi che non uscirà mai
ho ricordato in tre capitoli questa triste vicenda, avendovi partecipato
direttamente.
Questo i tre racconti:
Terremoto dell’Irpinia, partiamo con una colonna di soccorso
Nel
1980 facevo parte del Consiglio dell’USL di Lucca e mi dedicavo alla gestione
dell’ospedale di Lucca.
La
sera di domenica 23 novembre sento alla TV dello spaventoso terremo
dell’Irpinia. Ci sentiamo per telefono con il Presidente Moscardini, il Vice
Bertuccelli e gli altri amministratori USL, ci convochiamo per la mattina dopo alle
9 e li decidiamo di mandare una colonna di soccorso in collaborazione con il
Comune e i Vigili del Fuoco.
Una
corsa contro il tempo, l’USL predispone un sala operatoria da campo, due
chirurghi e un cardiologo, una suora caposala di chirurgia un altro paio di
suore e circa 30 allieve infermiere della scuola, che viaggeranno con un bus
messo a disposizione dal Clap.
Il
Comune alcuni mezzi della protezione civile con una decina di operai comunali,
i Vigili del Fuoco automezzi di soccorso e uomini.
A
fine mattinata, direi un miracolo, partiamo: come Usl siamo a coordinare il
tutto, due del consiglio, Bullentini, Sindaco di Capannori ed io, con una
scassata 500 dell’Usl.
Viaggiamo
spediti sull’autostrada, poche soste e intorno alle tre di notte siamo al
casello autostradale di Avellino, dove veniamo fermati dalla Polizia stradale
che non dà il permesso di viaggiare di notte sulle strade del terremoto perché
piene di fenditure e ponti pericolanti. Siamo stati fra i primi ad arrivare.
Proviamo a dormire in auto, ma le scosse di assestamento fanno ballare la cinquecento
come una campana stonata e fa un freddo boia. All’alba scortati da una
pattuglia della stradale iniziamo il viaggio all’interno dell’Irpina, passando
da paesi e strade sempre più disastrate: sembrava un luogo dove si sia
combattuta una lunga guerra di posizione.
La
meta che ci era stata assegnata era nei pressi di Sant’Angelo dei Lombardi. La
strada è molta dissestata procediamo lentamente per la presenza di altre
squadre di soccorso, il caos è dappertutto: interi paesi distrutti, morti e
feriti. Il conto finale parla di 3.000 morti e 280.000 sfollati.
A
Sant’Angelo non arriveremo mai, ci fermano i carabinieri, sulla c’è strada un
ponte non più transitabile, ci intimano di muoverci in altra direzione che la
nostra colonna impalla le squadre delle ruspe che devono scavare una
alternativa stradale al ponte. I carabinieri ci dicono che ci vorranno molte
ore di lavoro e ci suggeriscono di andare verso sud, direzione Materdomini,
dove non sono ancora andate colonne di soccorso.
Prendiamo
a sud, ma a Materdomini sono già arrivati altri e ci dicono di proseguire verso
Calabritto dove la distruzione è stata totale. Arriviamo a quello che doveva
essere il paese ma non c’è più: Vi è solo un cumolo informe di macerie. Le case
sono collassate sulla stretta via che attraversava il paese, che è paese di
collina, circa 500 metri sul livello del mare, alle pendici del monte Altillo,
Vediamo
sotto il paese un campo sportivo, sfondiamo i cancelli e ci fermiamo.
Terremoto dell’Irpinia, siamo a Calabritto
Siamo
arrivati a Calabritto completamente distrutta, ci siamo attestati nel campo
sportivo, montiamo sul campo, non certamente erbato, le tende per la sala
operatoria, i dormitori, i wc da campo e la mensa, per il personale.
Mentre
montiamo le strutture i Vigili del Fuoco, con i medici, iniziano a scalare le
macerie del paese per vedere le urgenze.
Per tutta la notte le nostre squadre di Pompieri, Operari Comunali scavano fra e macerie, come faranno nei cinque giorni e nelle cinque notti successive. Non troviamo che morti. L’odore acre di carne in putrefazione, nonostante il freddo inizia a farsi sentire, violento e cupo.
In totale ci saranno circa 100 morti a
Calabritto, una enormità visto i pochi abitanti del paese.
Il
nostro personale medico e infermieristico assistono i feriti e gli abitanti
sopravvissuti, riscaldandoli con generi di prima necessita. I feriti più gravi
dopo un primo esame sono mandati in elicottero negli Ospedali napoletani.
Le
poche ore che riusciamo a dormire sono un inferno, le violente scosse di
assestamento del terremoto ci sbalzano in terra, dalle brande da campo.
Sono
in tenda con i medici, tutti di grande valore, l’ortopedico poi diverrà nella
vita un best seller sportivo.
Io
sono un cacciatore e all’epoca spesso andavo a caccia sui passi appenninici,
dormendo nelle tendine canadesi, al freddo e alle intemperie: vedere questi bravi
medici con il pigiamino di seta, rotolarsi in terra e risalire sulle brande
compunti senza una imprecazione, commuovevano. Per loro era assai più
dura che per me che son sempre stato da bosco e riviera, come si dice a Lucca.
Questi
medici si sono poi rivelati persone coraggiose e serie: una notte verso le tre
del mattino veniamo svegliati d’urgenza: i vigli del fuoco campani hanno
trovato una donna viva ma non riescono a tirarla fuori. Andiamo con medici e
operai e ci troviamo davanti ad una situazione ambientale ed emotiva disperata:
la donna è incastrata per le gambe dal ginocchio in giù, su una costruzione a
più piani che si sono adagiati sull’ultimo, che è in bilico su un burrone
sottostante. La donna è viva e cosciente, ma è difficile poterla estrarre,
perché tutto è in bilico sul burrone e potrebbe morire lei, con i soccorritori.
La richiesta che ci fanno è devastante: chiedono ai nostri medici di tagliarle
le gambe per salvarle la vita. I nostri medici, grazie a Dio, si rifiutano, si
offrono di esporsi e di raggiungerla per tenerla in vita fino a che non si
trovi la maniera di estrarla e così faranno. I pompieri riprendono coraggio,
sono li da giorni e da molte ore di stress e fatica, ma con ancora molte ore di
lavoro riescono a tirare fuori la donna ferita ma integra. Tra l’altra tutta la
scena verrà ripresa da un operatore di una TV locale, capitato per caso.
In
questo viaggio disastro e tragico ci sono state anche cose…curiose…oggetto di
riflessioni passata l’emergenza.
Terremoto dell’Irpinia tanto dolore e due fatti curiosi
Siamo
rimasti a Calabritto sei giorni e cinque notti, fin che è durata l’emergenza,
poi è arrivato l’esercito, con le sue grandi tende, la cucina da campo, con
organizzazione ed efficienza. La nostra presenza non è più necessaria e
decidiamo di tornare a casa.
Sono
stati notti e giorni, di grande fatica e di grande stress, abbiamo visto tanto
dolore, tanti lutti, noi abbiamo cercato di fare il nostro dovere per il
meglio.
Voglio
ricordare due fatti “curiosi” avvenuti in quei giorni per meglio comprendere le
difficoltà in cui ci siamo mossi.
Finché non è arrivato l’esercito con la cucina da campo, uno dei principali problemi organizzativi nostri era nutrire la nostra squadra d’azione che fra medici, suore, infermiere, operari, vigili del fuoco sfiorava le 70 unità. Avevamo portato le razioni militari, scatolette di carne ed anche pasta secca, ma non era semplice dare da mangiare tre volte al giorno nel freddo gelido a tante persone che rientravano a tutte le ore, stravolte dalla fatica, in un posto dove non vi era più alcuna attività commerciale.
Nessun negozio rimasto in piedi, tutto distrutto, mancanza assoluta di pane e di ogni genere di cibo.
Il compito di
gestire la cucina era affidato alle suore ed in particolare alla suora capo
sala di chirurgia: un colonnello inflessibile e gerarchizzato. Il pasto che
assicurava era sempre così composto: mezza scatoletta di carne alle infermiere
e agli operai, una scatoletta a Bullentini e me, amministratori, una scatoletta
e mezzo ai medici. Una distribuzione classista e intransigente.
Dopo un paio di giorni la fame iniziava a farsi sentire per tutti ed allora inforcata la mitica 500 parto per andare a cercare, fuori dalla zona del terremoto dei negozi aperti.
Dopo molto chilometri scendendo verso il mare,
trovo un panificio ed acquisto tutto il pane possibile e un macellaio che ha
soltanto molti chili di salsicce di maiale: le prendo tutte. Stasera ci
leveremo la fame.
Errore, la divisione di pani e pesci non cambia per le Suore: alle infermiere e agli
operai pane a volontà e mezza salsiccia, a noi amministratori una salsiccia, ai
medici una salsiccia e mezzo. Inizio a convertirmi al Comunismo!!
Il secondo episodio testimonia il grande stress subito in quei giorni: abbiamo deciso di partire per tornare a casa, abbiamo sfatto le tende, la sala operatoria, abbiamo caricato tutto sui mezzi quando si scatena un temporale fortissimo, violenti scosse di acqua gelata e vento, si aggiungono alle scosse di assestamento.
Diciamo a tutti di salire sui rispettivi mezzi di trasporto e di fare la colonna. Nel bus del Clap sono ammassati dottori, infermieri, suore: dico al primo medico che mi capita accanto di contare se a bordo sono tutti ed io vado a sincerarmi che operai e pompieri siano pronti per partire.
Ci muoviamo, sotto
un diluvio universale, non si vede nulla e con il fango che arriva alle
ginocchia. Scendiamo verso il mare ed appena usciamo dalla zona del sisma e
troviamo case non più distrutte, fermiamo la colonna davanti ad un Bar per
prendere qualcosa di caldo e verificare se siamo tutti.
Nel Bar mi raggiunge
il medico che avevo incaricato di contare se erano tutti quelli che viaggiavano
sul Bus. E’ il medico ortopedico e mi dice che nella confusione si è sbagliato:
è rimasto a terra un infermiere.
Prendo la 500, torno indietro e dopo molti chilometri, lo trovo a lato della strada, sotto il diluvio di acqua, mezzo congelato. Lo faccio salire: è tutto bagno e una iena: perché mi avete lasciato indietro?
Mi scuso e gli dico che il medico incaricato di contare se c’erano tutti si è sbagliato e siamo partiti senza di te. Si incupisce, si chiude in silenzio.
Arriviamo al Bar dove ci stanno aspettando
gli altri, scendiamo: non faccio in tempo a dire una parola che l’infermiere
afferra l’ortopedico per il colletto e con un diretto alla mascella lo stende
secco in terra. Gelo di tutti.
Rialziamo il medico,
cerchiamo di ricucire la cosa, ma sappiamo che è successo un fatto grave certo
dovuto allo stress e alla fatica, ma stendere un medico da parte di un
infermiere sarà fonte di grandi casini.
Per fortuna arrivati
a Lucca dopo tante ore di marcia, il medico si dimostra persona intelligente e
comprensiva del momento, non si accanisce con denunce personali è disposto a
perdonare e non vuole vendette.
Questo ci consente come Amministrazione USL di chiudere il caso con una lieve pena per l’infermiere, una censura che non gli creerà la perdita del lavoro e dello stipendio.
L’infermiere è morto poco tempo fa: era divenuto del tempo un valente sindacalista ed anche bravo consigliere comunale. Una ottima persona.
Il medico ha fatto una splendida
carriera sia in Ospedale che nel mondo dello Sport e a volte quando ci
incontriamo ricordiamo con struggente malinconia quei brutti giorni al terremoto
dell’Irpinia: 3.000 morti, 280.000 sfollati, tutto distrutto in 500 Comuni.
francesco colucci